Instituto Valenciano de Infertilidad

Sono sempre di più i bambini nati
da genitori guariti dal cancro

di oggisalute | 20 ottobre 2016 | pubblicato in Attualità
neonatologia

Solo 10 anni fa non c’era alcuna speranza. Nella maggior parte dei casi, il tumore cancellava qualsiasi possibilità di essere genitori utilizzando i propri gameti, a causa dell’effetto di chemio e radioterapia sulla fertilità. Ma i progressi scientifici hanno permesso qualcosa di miracoloso: un paziente con diagnosi oncologica può oggi diventare genitore, una volta sconfitta la malattia, grazie a trattamenti di riproduzione assistita. L’Instituto Valenciano de Infertilidad (Ivi) ha avviato nel 2007 il suo programma gratuito di preservazione della fertilità per motivi oncologici ‘padre dopo il cancro e madre dopo il cancro’ e da allora sono 14 i bambini nati da donne che hanno vinto la battaglia contro il cancro.

Per undici di loro le mamme avevano avuto un tumore al seno, il più frequente tra le pazienti di Ivi. A loro si aggiungeranno i due neonati che nasceranno prima della fine dell’anno, portando quindi a 16 i sogni realizzati sotto forma di vita, desideri che nella maggior parte dei casi danno ai pazienti la forza di affrontare la propria malattia con la speranza di diventare un giorno genitori.

“Fino a oggi abbiamo preservato la fertilità di circa 800 pazienti oncologiche nelle cliniche Ivi in Spagna, il 65% delle quali con diagnosi di tumore al seno. Si tratta del tumore più frequente nelle donne, dal momento che il rischio di soffrire di questa malattia riguarda 1 donna su 8. Allo stesso tempo, oggi disponiamo di molti mezzi per poter diagnosticare il tumore al seno precocemente, in modo da poter intervenire subito, cosa che ha permesso di portare i livelli di sopravvivenza globale a 5 anni dalla diagnosi, secondo i dati Airtum 2015. Questo aiuta le pazienti oncologiche a guardare avanti con ottimismo, coscienti delle proprie possibilità non solo di cura ma anche di diventare madri”, commenta Daniela Galliano, direttrice del Centro Ivi di Roma. Oltre la metà delle pazienti che hanno vitrificato i propri ovuli per motivi oncologici nei centri Ivi lo ha fatto prima dei 35 anni e il 30% oggi è mamma.

Ed ecco una storia fra le tante: Valentina, il finale felice della battaglia di Silvia. È nata lo scorso giugno dopo che sua madre aveva sconfitto un tumore al seno che le era stato diagnosticato nell’ottobre del 2009, a 37 anni. “Il giorno stesso in cui mi dettero i risultati delle analisi, l’oncologo mi parlò della possibilità di preservare la mia fertilità, un’opzione che mi diede una piccola speranza, una ragione in più per lottare con forza per superare la malattia che mi ha rubato 6 anni della mia vita”, commenta Silvia.

A maggio del 2015, ricevuta la diagnosi di remissione completa, la paziente si è affidata alle cure di Silvia González, ginecologa del Centro Ivi di Barcellona, per cominciare un trattamento di riproduzione assistita con l’obiettivo di diventare madre grazie all’utilizzo dei suoi ovuli, fecondati prima della chemioterapia. “Dopo la seconda Fiv (Fecondazione in vitro) sono rimasta incinta e 9 mesi dopo è arrivata Valentina, la mia ragione di vita”, racconta Silvia.

“Quando un paziente riceve una diagnosi di tumore e viene da noi per richiedere un trattamento di preservazione della fertilità – spiega ancora Galliano – si analizzano le opzioni migliori per conservare i suoi gameti senza che questo influenzi l’evoluzione della malattia. Per fare questo bisogna tenere a mente due premesse: la prima è che l’oncologo parli al paziente di questa possibilità di preservazione gratuita e la seconda è la rapidità con cui è necessario agire per non ritardare l’inizio della terapia oncologica. In ultima istanza sarà il ginecologo, in collaborazione con l’oncologo, a decidere la tecnica più adatta a ciascun caso”.

Nel caso degli uomini è più semplice. Un campione di sperma basterà per conservare i gameti maschili in caso ci sia necessità di utilizzarli in futuro. Per le donne due sono le tecniche più usate: la vitrificazione di ovociti che consiste nella crioconservazione – immersione diretta in nitrogeno liquido a una temperatura di -196°C – degli ovuli maturi ottenuti grazie alla stimolazione ovarica, al fine di usarli una volta superata la malattia con lo stesso livello qualitativo del momento della conservazione.

Poi, il congelamento della corteccia ovarica per trapiantarla dopo il tumore, che permetterebbe anche gravidanze spontanee una volta recuperata la funzione ovarica della paziente. Questa tecnica si applica a quei casi che richiedono un inizio immediato della chemioterapia – senza che ci sia tempo per la stimolazione ovarica – in donne per le quali la stimolazione ovarica non sia raccomandata o nelle bambine in età prepuberale.

(Fonte: Adnkronos)

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