Allarme della Società Italiana di Cardiologia

“Bisturi in fuga” dall’Italia:
anche i chirurghi emigrano

di oggisalute | 15 ottobre 2014 | pubblicato in Attualità
chirurghi

“Non è un paese per chirurghi” è l’esclamazione accorata di Francesco Corcione, presidente eletto della Società Italiana di Cardiologia a Congresso a Roma. “Ormai formiamo risorse che cercano fortuna all’estero, – commenta – una lenta ma inarrestabile emorragia che presto mostrerà i suoi effetti”.

In Italia nel 2010 il numero di assunti di ruolo in chirurgia generale ha coperto solo il 10% del fabbisogno e il 20% nella chirurgia specialistica. Situazione analoga nei reparti dove nel 2011 mancavano all’appello 8800  medici che secondo alcune stime diventeranno 22mila nel 2018 e  34mila tra soli 10 anni.

“Le ragioni sono molteplici, da quelle personali e professionali a quelle organizzative, – prosegue Corcione – le scuole non riescono a riempire i posti a disposizione: negli ultimi anni abbiamo assistito ad un calo di iscrizioni del 30%. Diventare chirurgo non è più un sogno per i giovani medici: un laureato in medicina tra specializzazione e precariato inizia a guadagnare ben 10 anni dopo i suoi “colleghi” in ingegneria o giurisprudenza. Negli Stati Uniti il percorso formativo è più breve: 4 anni per la laurea, 5 di internato e 2 di specializzazione per diventare ‘chief resident’ (ce la fa uno su 10). Nel frattempo il giovane studente americano alla fine dei 7 anni trascorsi ‘sul campo’ ha eseguito circa 2000 interventi con una rotazione obbligatoria nelle varie specialità”.

Uno specializzando italiano alla fine del suo processo formativo ha lavorato su cartelle cliniche, e interventi minori e si avvia una vita da “precario”. Per tacere il fatto che talora gli specializzandi vengono utilizzati per supplire alla carenza del personale di ruolo, esponendoli a rischi professionali. Questo perché vengono stipulati pochissimi contratti  a tempo indeterminato (nel 2011 coprivano solo il 15% del fabbisogno) a causa di tagli, errate valutazioni del fabbisogno da parte delle Regioni e blocco dei contratti in quelle sottoposte al piano di rientro.

Anche a livello economico i medici e i chirurghi italiani non trovano vantaggi rispetto ai sacrifici richiesti: in Italia uno specializzando guadagna la metà di uno inglese, 1750 euro contro 2500 sterline, il quale ha anche la prospettiva di crescita importanti negli anni successivi e un medico della carriera che opera in un ospedale pubblico guadagna tra i 100 e i 250 mila euro l’anno.

Ricevere una denuncia nel corso della carriera è invece praticamente una certezza. Deve difendersi l’80% dei medici e 9 su 10 vengono assolti, il che dovrebbe suggerire che forse in Italia esiste una tendenza a tentare la denuncia nella speranza di un risarcimento.

“Un quadro già critico, il ‘paziente Ssn’ è già in terapia intensiva, – aggiunge Corcione –  ma a farne le spese è sempre l’utente finale: tra 10 anni e con quasi 30mila medici in meno il sistema non sarà più in grado di rispondere alla domanda di assistenza, limiterà l’accesso alle cure e allungherà esponenzialmente le liste d’attesa. Il risultato? Entro 10 anni assisteremo ad un progressivo peggioramento della salute dei cittadini il che alimenterà a discapito delle fasce più fragili e povere come le famiglie con bambini, gli anziani, i soggetti con malattie croniche, le persone con bisogni speciali” conclude il chirurgo. Di questo passo tra 10 anni non avremo più chirurghi formati ed esperti e saremo costretti ad assumere chirurghi provenienti da paesi dell’est o dei paesi in via di sviluppo con conseguenze facilmente immaginabili”.

E mentre gli uomini abbandonano il bisturi sul tavolo operatorio e prendono valigia e passaporto emerge un piccolo esercito di “chirurghi in rosa”: in 10 anni infatti, le donne iscritte alle scuole di specializzazione in chirurgia sono aumentate dall’8 (2001) al 50% (2010).

Lascia un commento

Protezione anti-spam *