Il documento della Fondazione Gimbe

Tutti i “falsi miti” sul super-farmaco
contro l’epatite C

di oggisalute | 26 maggio 2015 | pubblicato in Attualità
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“È indispensabile riallineare aspettative dei pazienti e politiche sanitarie alle reali prove di efficacia del ‘super-farmaco’ contro l’epatite C e definire le priorità di trattamento secondo criteri di costo-efficacia”. Sono scettici gli esperti della Fondazione Gimbe sul sofosbuvir, sul sofosbuvir, il primo ‘super’ farmaco contro l’epatite C, dal costo alle stelle.

A evidenziare tutti i dubbi è un documento che – dopo le polemiche di questi giorni fra Aifa e Regione Toscana sull’accesso  ‘allargato’ al medicinale – invita a “valutare con sano scetticismo e  adeguato rigore metodologico tutte le innovazioni farmacologiche e  tecnologiche evitando, sull’onda di un contagioso entusiasmo, di  enfatizzare i benefici e minimizzare i rischi degli interventi  sanitari”.

Con l’obiettivo di “informare correttamente professionisti e  pazienti”, il position statement ‘Efficacia e costo-efficacia del  sofosbuvir nel trattamento dell’epatite C’ evidenzia “alcune criticità metodologiche relative alla robustezza delle prove di efficacia, oltre che all’entità e alla precisione dei benefici del farmaco”. Criticità  che emergono dall’analisi degli studi che hanno valutato l’efficacia  dell’anti-epatite C, nessuno indipendente.

Dunque, secondo gli esperti di Gimbe, “il sofosbuvir costituisce una rilevante innovazione  terapeutica, ma le evidenze disponibili documentano solo che il  farmaco è efficace nel determinare una risposta virologica sostenuta  in una percentuale che raggiunge il 90% in alcuni – ma non in tutti –  sottogruppi di pazienti”.

“Assimilare la risposta virologica sostenuta nel singolo paziente  all’eradicazione del virus C dalla popolazione – si sottolinea – è una suggestiva, ma inverosimile, strategia di sanità pubblica. Considerato che la mortalità nei pazienti con epatite C è molto bassa e che  nessuno studio ha dimostrato che il sofosbuvir riduce la mortalità, il termine ‘farmaco salvavita’ è improprio e non dovrebbe più essere  utilizzato”.

“La storia naturale dell’epatite C e le prove di  efficacia disponibili – afferma la Fondazione Gimbe – non giustificano in nessun contesto sanitario, indipendentemente dalla disponibilità di risorse, una policy che preveda il trattamento di tutti i pazienti con epatite C, con l’obiettivo di prevenire l’evoluzione dell’epatite  cronica in cirrosi, lo scompenso della cirrosi, lo sviluppo  dell’epatocarcinoma, i trapianti di fegato e la mortalità”.

Per gli esperti, “in assenza di prove di efficacia dirette sulla  capacità del sofosbuvir di rallentare l’evoluzione dell’epatite C,  scommettere sui potenziali risparmi per l’assistenza sanitaria è  puramente speculativo e non supportato da alcun dato scientifico”.

Queste conclusioni si basano sulla valutazione che “tutti gli studi  che hanno valutato l’efficacia del sofosbuvir sono stati finanziati,  progettati e realizzati dall’azienda produttrice Gilead Science e, al  momento, non esiste alcuno studio indipendente; non conosciamo il  reale valore aggiunto del farmaco rispetto a un confronto appropriato; alcuni studi presentano limiti metodologici rilevanti (controlli  storici, assenza di blinding)”.

“Tutti hanno utilizzato come misura di esito un ‘end-point’ surrogato, ovvero la risposta virologica sostenuta al di sotto della soglia  minima identificabile a 24 o a 12 settimane dalla sospensione del  farmaco. Questa non garantisce l’eradicazione del virus dal sangue  (che resta solo al di sotto della soglia minima), né permette di  identificare la persistenza del virus nei tessuti. Per alcuni  sottogruppi di pazienti la stima dell’effetto del trattamento è  incerta a causa della loro limitata numerosità campionaria. Non  esistono prove di efficacia dirette su ‘outcome’ clinicamente  rilevanti: evoluzione dell’epatite in cirrosi, scompenso della  cirrosi, insorgenza di epatocarcinoma, mortalità. Non è nota la  probabilità di re-infezione nei pazienti che hanno ottenuto una  risposta virologica sostenuta. Non conosciamo gli effetti avversi,  oltre che la compliance, nel mondo reale”, conclude Gimbe, per cui  “definire le priorità di trattamento in relazione alla costo-efficacia del sofosbuvir nei vari sottogruppi di pazienti rappresenta oggi  l’unica soluzione accettabile dal punto di vista clinico, etico ed  economico”.

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