Mancano dati ufficiali e un sistema nazionale omogeneo

Epatiti, hiv e tbc. Carceri italiane? Una polveriera
Simspe: “I detenuti di oggi sono i cittadini di domani”

di oggisalute | 21 maggio 2014 | pubblicato in Attualità,Prevenzione
FOTO REPERTORIO DI CARCERI PER VOTO SU INDULTO

La popolazione detenuta in Italia è cresciuta negli ultimi dieci anni dell’80%. Tuttavia, spazi e strutture sono rimasti sostanzialmente invariati, rendendo le condizioni dei detenuti ai limiti dell’invivibilità. La maggior parte delle carceri hanno dei tratti comuni: bagno e cucina nello stesso locale, cambio di lenzuola ogni 15 giorni, bagno alla turca o water separati gli uni dagli altri da un muretto alto appena un metro, strutture fatiscenti. Il personale è insufficiente, gli assistenti sociali sempre meno del necessario. E l’assistenza sanitaria? Come si può facilmente intuire da questo quadro, anch’essa non è all’altezza, anzi risulta di pessima qualità.

Una delle cause della difficile situazione delle carceri italiane può essere individuata nelle norme che ne attribuiscono il controllo agli enti locali. Le leggi attuali, infatti, delegano il sistema sanitario alle Asl locali, generando così sistemi organizzativi disomogenei nei 205 istituti penitenziari italiani. Le Asl, inoltre, non hanno né i mezzi né il know how necessario per operare nei luoghi di restrizione della libertà. In epoca di spending review, con la sanità pubblica che subisce grossi tagli, le carceri appaiono come vittime predestinate ad appartenere ad un sistema sanitario di serie B se non di serie C. Serve dunque una cabina di regia nazionale e non una frammentazione delle organizzazioni.

“La vera emergenza delle carceri italiane è la mancanza di dati certi, che si traduce nella mancanza della possibilità di pianificare un intervento”, ha dichiarato Guido Leo, dirigente medico di malattie infettive all’Ospedale Amedeo Savoia di Torino e presidente del congresso di questi giorni organizzato dalla Simspe, la Società italiana di medicina e sanità penitenziaria. Quando questo compito spettava al Ministero della giustizia, i dati, seppur scientificamente non rigorosi, erano comunque disponibili fornendo una base su cui ragionare; oggi il sistema delle Asl genera frammentarietà e, conseguentemente, confusione. L’unica fonte che si occupa attivamente di una raccolta dati a livello nazionale è la Simpspe, una società scientifica onlus che si occupa proprio di tutelare la salute dei detenuti. La Simspe elabora studi e numeri su questo tema e si occupa inoltre della formazione di infermieri, psicologi, medici che operano nei 205 istituti penitenziari italiani. Chi percepisce i bisogni dei singoli detenuti sono gli infermieri che provvedono a girare l’informazione ai medici, unica professionalità non militare con cui i detenuti sono in costante contatto, per questo vanno quindi preparati in maniera specifica.

I dati della Simspe sono a dir poco soprendenti: l’incidenza della tubercolosi in carcere, per esempio, è maggiore dalle 25 alle 40 volte rispetto alla prevalenza che ha nella popolazione generale; discorso simile per l’Hiv (10 volte) e le epatiti. Sergio Babudieri, professore associato di malattie infettive all’Università di Sassari e presidente della Simspe, ha rilevato come nella popolazione carceraria tra il 30 e il 40% delle persone abbiano l’epatite C, mentre l’epatite B attiva è intorno al 7%; oltre la metà dei detenuti (56%), inoltre, ha avuto contatti con l’epatite B; l’infezione della tubercolosi è oltre il 50% nei detenuti stranieri. “Questi numeri dovrebbero essere raccolti dallo Stato, serve un Osservatorio nazionale di studi sulla sanità in carcere”, afferma Babudieri. “Uno degli scopi del Congresso è proprio quello di iniziare a ragionare sulla creazione di raccomandazioni che possano poi essere presentate all’interno di un documento ufficiale e consegnate alle istituzioni. Alcuni gruppi di lavoro si stanno già attivando”.

Si avvicinano le elezioni europee e il prossimo 28 maggio è un anno dalla sentenza Torregiani, un richiamo della Corte europea all’Italia per allinearsi a livelli comunitari. Alcuni risultati sono stati raggiunti: il sovraffollamento è sceso dal 50% al 20%, ma l’Europa vuole vedere riforme strutturali. Il passaggio della Sanità penitenziaria dal Ministero della giustizia al Sistema sanitario regionale è un evento epocale che ha comportato un enorme cambiamento nell’assistenza ai pazienti detenuti, purtroppo non sempre e non da tutti recepito.

Chi entra in carcere più facilmente può contrarre malattie come aids, tubercolosi, epatiti, malattie sessualmente trasmissibili e altre patologie infettive. I prigionieri sono spesso soggetti all’obesità, sono fumatori e costretti ad una cattiva alimentazione. L’attività della Simspe risiede pure nel sensibilizzare gli individui, ponendoli di fronte ad eventuali terapie e diagnosi. A questo proposito, il carcere rappresenta un osservatorio straordinario per coinvolgere delle fasce di popolazione che altrimenti non terrebbero mai in conto il bene salute. “Il detenuto di oggi è il cittadino di domani; in carcere si riesce ad intercettarlo, fuori come si fa?”, domanda Babudieri facendo notare come “vari studi dimostrano che i pazienti positivi all’Hiv non consapevoli trasmettono il virus sei volte di più di quelli che sanno di esserne infetti”.

Da non sottovalutare poi gli aspetti psicologici: l’inevitabile depressione di chi è detenuto, ma anche alcuni rischi specifici. Ad esempio, per alcune categorie vi è la necessità di un approccio tipo psichiatrico: è il caso dei sex offenders, autori dei reati più ignominiosi, soggetti per una sorta di contrappasso a trattamenti massacranti da parte degli altri prigionieri; bisogna intervenire per tutelarli e curarli e per questo servono professionisti di altissimo livello, per trasformare il carcere sempre più in un luogo di recupero e non di pena fine a se stessa se non peggiorativa.

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