Intervista al presidente dell'Associazione di dietetica e nutrizione clinica italiana

Cibo e salute, i periodi di crisi fanno vivere meglio
Lucio Lucchin: “Integratori alimentari? Ma servono?”

di valerio droga | 7 febbraio 2014 | pubblicato in Interviste,Nutrizione,Prevenzione
lucchin

Alimentazione e salute, rapporto fra cibo e psiche, quali alimenti vanno consumati e in che quantità, la grande illusione degli integratori, le principali patologie legate alla nutrizione e loro prevenzione e cura a partire dalla tavola, la lotta all’obesità e alla malnutrizione ospedaliera. Questi i principali temi su cui si articola l’intervista a Lucio Lucchin, presidente di Adi, l’Associazione di dietetica e di nutrizione clinica italiana, direttore medico dell’Unità complessa di Dietetica e nutrizione clinica del Comprensorio sanitario di Bolzano e docente universitario a contratto a Padova e Pavia.

Qual è il rapporto fra alimentazione e salute? Davvero siamo quel che mangiamo, come sosteneva Feuerbach?

“Il rapporto è decisamente prioritario dato che l’alimentazione è un bisogno primario, non possiamo vivere senza, quindi ciò che mangiamo non può che condizionare lo stato di salute. Basti pensare che nel corso di una vita ogni individuo consuma non meno di 70 tonnellate di alimenti: se un errore isolato difficilmente avrà conseguenze sulla nostra salute, si comprende bene come un’abitudine alimentare errata e ripetuta nel tempo potrà creare problemi più o meno gravi e più o meno cronici. Il filosofo tedesco aveva in gran parte ragione, visto che la costituzione fisica e chimica di quel che siamo è essenzialmente determinata da ciò che introduciamo nell’organismo in termini di tipologia di molecole, piuttosto che di cibi”.

Si può dire lo stesso anche dal punto di vista psicologico? La psiche è influenzata dal cibo?

“Dal punto di vista psicologico la correlazione è di pari rilievo. Pensiamo all’aspetto conviviale della tavola e a tutte le valenze sociali sottese, pensiamo anche al valore compensatorio e simbolico del cibo. È infatti un ottimo succedaneo per stress, noia e altre carenze: gratifica, anche se, purtroppo, non rimuove le cause d’insoddisfazione e spesso instaura un circolo vizioso: mangiamo perché siamo in ansia o  per non pensare a un problema e, poi, ci facciamo venire il senso di colpa perché abbiamo mangiato e quindi l’ansia aumenta ancora di più. E la ruota gira! La difficoltà principale che riscontriamo nel far cambiare rotta alimentare sta proprio nella dipendenza psicologica che spesso si instaura. Purtroppo è sempre più fiorente l’industria della dieta, perché la gente, quando si trova ad affrontare problemi complessi, cerca soluzioni rapide anche se si  intuisce che possano essere semplicistiche e inefficaci, per non dire pericolose: quanto più la situazione è disperata, tanto più si cercano miracoli a cui aggrapparsi e così, molto spesso, finisce per dimagrire soltanto il portafogli”.

Quanto incide la quantità in un regime alimentare?

“Quello su cui tutti gli studi scientifici sono d’accordo è che l’unico modo per vivere più a lungo è mangiare di meno, riducendo mediamente la quantità delle calorie giornalmente assunte di un 30-40 per cento. E il beneficio si otterrebbe anche se si iniziasse da adulti. La dieta mediterranea, tanto decantata ma da quasi nessuno seguita realmente, che ha caratterizzato il nostro dopoguerra, è di fatto una dieta sobria e non  solo, è anche tradizione e abitudini socio-culturali. Ci sono poi studi che correlano la crisi del ’29 e la crisi petrolifera che ha riguardato Cuba pochi anni fa con livelli di salute migliori e una durata della vita più elevata. Del resto dobbiamo prendere coscienza del fatto che, a fronte di grandi cambiamenti sociali e tecnologici, con tutte le influenze sugli stili di vita, il nostro patrimonio genetico è rimasto praticamente immutato da 25 mila anni. Questo significa che il nostro organismo è fatto per vivere in condizioni di carenza alimentare e resistere anche a forti carestie, ad esempio trattenendo l’eventuale eccesso energetico sottoforma di riserve di grasso. È fatto anche per il movimento: i nostri antenati di inizio Novecento percorrevano a piedi mediamente 10-20 chilometri al giorno, noi oggi non più di un chilometro e mezzo: non possiamo quindi pretendere di stare in salute se violiamo le nostre esigenze dettate dalla genetica, la nostra natura”.

A proposito di quantità, ci sono cibi da limitare, altri da bandire e altri ancora ai quali non dobbiamo mai rinunciare?

“Dobbiamo dire che non ci sono alimenti che fanno bene né altri che fanno male, è proprio una questione di quantità e frequenza di assunzione. La natura non ha fatto liste di proscrizione, è l’uomo che le crea per semplificarsi la vita. È chiaro che ci sono cibi che devono essere introdotti in quantità o con frequenza maggiore, come i vegetali, e altri, come proteine e dolci, che devono costituire una minima parte, come consigliato dalla tanto decantata piramide alimentare. In ogni caso parliamo di soggetti sani: ci sono individui che non possono invece mangiare o devono limitare particolarmente determinati alimenti, pensiamo ad esempio agli zuccheri per i diabetici o al glutine per i celiaci”.

Per quanto riguarda la qualità, invece, come può orientarsi il consumatore?

“La qualità di quel che mangiamo è anch’essa fondamentale per la salute, ma orientarsi in questo senso è piuttosto difficile. Io conduco una personale battaglia contro i cosiddetti marchi di qualità, perché spesso stanno attenti al gusto o all’aspetto visivo di un prodotto, a volte magari alla territorialità (pensiamo ai marchi a chilometro zero), ma ci dicono davvero pochissimo sulla composizione di quel prodotto. A parte il piacere dei sensi, dall’aspetto al gusto, il primo parametro di valutazione di un alimento dovrebbe riguardare le proprietà nutritive, perché la sua funzione primaria è appunto nutrirci. Abbiamo etichette di acque minerali dettagliatissime sui minerali contenuti e, paradossalmente, etichette alimentari che non ci dicono quasi nulla sotto questo aspetto. Parlando di vegetali, sappiamo per esempio che dal 1940 al 2000 hanno visto un decremento del 30-40 per cento dei sali minerali. Può dipendere dai semi utilizzati, dai terreni, dai fertilizzanti chimici, dalla zona di coltivazione, dal momento della semina, da quello della raccolta e quindi il grado di maturazione del vegetale, può dipendere da uno o più fattori di questi, ma in ogni caso sono ancora troppo infrequenti i controlli di qualità che facciano analisi di questo tipo e il consumatore resta pertanto spiazzato, senza strumenti di valutazione nutrizionale”.

C’è quindi a monte anche un problema nelle tecniche di agricoltura e di allevamento?

“Certamente le monocolture hanno impoverito il suolo, rendendo gli stessi vegetali più indifesi da attacchi parassitari e bisognosi di un supporto chimico, così fertilizzanti e anticrittogamici certamente non devono far bene alle qualità di un prodotto agricolo, le colture fuori stagione e forse anche le nuove sementi brevettate possono magari migliorare la produttività ma non necessariamente la qualità, se non addirittura il contrario, proprio perché non è un parametro a cui il mercato sta attento e quindi quasi ininfluente. Quello che andrebbe fatto è confrontare in laboratorio le qualità nutritive di prodotti agricoli frutto di stili di colture diverse per avere dei parametri seri e inequivocabili per stabilire quale tipo di agricoltura dia il risultato migliore, lo stesso vale per l’allevamento. Ma il tema della biodiversità non riguarda soltanto il momento della produzione, ma anche quello del consumo. Nel Medioevo ogni orto vedeva la coltivazione di 40-50 varietà, tra vegetali commestibili e altri a scopo farmaceutico, con arricchimento quindi anche delle tavole di allora, oggi c’è invece un appiattimento generale: il cittadino medio fatica a citare il nome di 20 diversi tipi di vegetali. Si diventa abitudinari, riducendosi spesso a mangiare gli stessi cereali, legumi, verdure e carni”.

Si può compensare una dieta male equilibrata con integratori di vitamine, aminoacidi, antiossidanti o sali minerali?

“A parte l’irrazionalità e l’inefficienza economica (per il consumatore e non certo per l’industria) nell’estrarre questi microelementi da un vegetale per fissarli in una pasticca, visto che comporta costi maggiori che acquistare direttamente cibi di alta qualità, dobbiamo ammettere il limite che ha la scienza odierna nel riconoscere tutti i componenti e le loro relazioni interne a un alimento: ad esempio il caffè avrà almeno 10 mila componenti e non soltanto la caffeina, e questa caffeina avrà un effetto se estratta in pillole e un altro se assunta direttamente dal caffè. Questa ignoranza umana, oltre a rendere l’operazione di sintesi in laboratorio il più delle volte inefficiente, rende questi integratori in molti casi inefficaci e quindi inutili. Il paradosso è che laddove servirebbero non vengono prescritti e ad assumerli sono per lo più coloro che non ne avrebbero bisogno. Potere del marketing! Numerosi studi sulla prevenzione dei tumori, infatti, hanno riscontrato che gli effetti anti degenerativi di alcuni frutti o ortaggi non si ottengono con i relativi integratori di antiossidanti. Serve quindi un atto di umiltà e un rispetto maggiore di quel laboratorio unico che è la natura. E serve la consapevolezza che manipolare l’alimentazione può essere pericoloso nel medio lungo termine e quindi è bene affidarsi, specie in caso di presenza di patologie, a mani esperte come quelle del medico specialista in scienza dell’alimentazione. Per qualsiasi tipo di problema sanitario non si ascolta qualsiasi consiglio, ma, chissà perché, sull’alimentazione tanti, troppi, si sentono in diritto di consigliare, senza le opportune conoscenze di quello che può accadere all’organismo”.

E per quanto riguarda alcuni stili alimentari piuttosto rigidi, gli integratori si rendono necessari? Penso in particolare ai vegani e alla vitamina B12, che non si trova in nessun vegetale.

“Certamente più è rigida una dieta e più si predispone a carenze, anche se va pure detto che l’alimentazione vegana, se ben equilibrata, può garantire anche livelli migliori di salute. In questo caso bisogna fare molta attenzione a scegliere gli alimenti con il massimo equilibrio e non abbracciarla alla spicciola come fanno in tanti. E parliamo di vegani adulti, nel caso dei bambini o degli adolescenti seguire questa dieta diventa ancora più difficile, seppure non impossibile, perché il corpo cambia rapidamente e cambiano con altrettanta velocità le sue esigenze nutrizionali. Una carenza tipica della popolazione vegan è quella di vitamina B12, ma anche di vitamina B1 e di ferro. In particolare la B12, viene prodotta in piccola quantità, in genere non sufficiente a coprire i fabbisogni del corpo, da alcuni batteri intestinali e si trova solo in prodotti di origine animale. Per tutte queste ragioni quanto più è restrittiva una dieta tanto più bisogna sottoporsi periodicamente ad esami diagnostici per controllare che non compaiano carenze e, solo in quel caso, ricorrere a una qualche forma di integratore. E questo vale, naturalmente, anche nel caso di presenza di molte patologie”.

Quali sono le patologie più diffuse legate all’alimentazione? Si possono curare col cibo o a tavola si può solo fare prevenzione?

“Per l’insorgenza di molte malattie una forte componente è proprio data da una errata nutrizione. Consideriamo che nel 30 per cento dei tumori l’alimentazione è una forte concausa, nel 40-50 per cento di patologie cardiovascolari è una fortissima concausa e lo stesso per malattie metaboliche quali diabete o gotta. Un corretto stile alimentare è quindi il primo step nella prevenzione primaria, mentre, dal momento in cui la malattia insorge, la dieta può essere uno strumento di terapia, anche se non il solo: aiuta a curare ma non guarisce. Lo stesso può dirsi per esempio dell’attività fisica. Va poi considerato che ci sono alcune patologie che richiedono necessariamente un tipo specifico di dieta, soprattutto quando si tratta di patologie croniche”.

Guardando soprattutto alle nuove generazioni, quanto conta l’educazione alimentare e quale dovrebbe essere il ruolo delle scuole?

“È vero che il ruolo delle scuole è fondamentale nell’educazione delle nuove generazioni e che può essere anche uno strumento indiretto, attraverso i figli, per tentare di fare cambiare errati stili di vita ai genitori, ma non possiamo addossare a questo istituto tutto il peso, bisogna anche responsabilizzare le famiglie e, in particolare, madre e padre, che devono educare innanzitutto con il proprio esempio. Biasimo fortemente questo atteggiamento ipocrita di scaricare tutta la responsabilità sui più piccoli: se un bambino è obeso, molto spesso lo sono anche i suoi genitori. Non si può pensare che, quando si è adulti, ormai sia troppo tardi per recuperare, sono in tanti a crearsi questo alibi. È vero che cominciare da piccoli a seguire una buona dieta dà sicuramente i risultati migliori, ma anche cambiare in corsa è utile, dopotutto la salute si rigenera ogni giorno, anche e soprattutto con quel che mangiamo quotidianamente, come abbiamo già visto”.

Quali sono le attività principali di Adi, i risultati già ottenuti e gli obiettivi che avete delineato per il futuro?

“In questo momento ci stiamo muovendo sui due più grandi fronti della malnutrizione. Innanzitutto la malnutrizione per difetto, quella che siamo abituati a identificare con il terzo mondo, ma che sta seriamente radicandosi anche da noi, specie a livello ospedaliero. Stiamo premendo a livello istituzionale, specie ministeriale e di assessorati regionali, anche con il coinvolgimento delle associazioni dei cittadini. Negli ospedali i pazienti sono ingiustificatamente poco pesati e monitorati per questo importante parametro clinico. Non si capisce perché si prende la temperatura corporea più volte al giorno, anche in assenza di febbre, ma raramente si sente la necessità di pesare il paziente. Nelle strutture per anziani, poi, la situazione è ancora peggiore. Prestare poca attenzione allo stato nutrizionale dei ricoverati è una costante in tutta Europa, genera un aumento della spesa con spreco di capitale pubblico, oltre al paradosso di non sfruttare il potere curativo dei cibi, proprio nei luoghi deputati a farlo. L’altro grande fronte è l’obesità. Per questo, abbiamo creato l’iniziativa Obesity Day, una giornata nazionale che ogni anno, in autunno, vuole sensibilizzare le strutture pubbliche e private su questa grossa emergenza socio-sanitaria. Infine, siamo impegnati costantemente a rilanciare il ruolo del medico dietologo e delle figure professionali che lo affiancano, sensibilizzando non solo l’opinione pubblica ma anche le strutture ospedaliere. Da un lato, infatti, sono davvero pochi gli ospedali con reparti specializzati in dietologia e nutrizione clinica e, dall’altro, la crescente domanda dell’opinione pubblica sfiata nelle molteplici offerte dell’industria della dieta il cui fine, spero, risulti piuttosto evidente a tutti”.

Per maggioi informazioni: www.adiitalia.net.

Commenti

  1. Lucia Polventi scrive:

    Ho letto su Focus di questo mese un articolo davvero interessante che parla dei falsi miti sul cibo. Grazie ad una ricerca scientifica hanno dimostrato che tante credenze “popolari” sull’argomento cibo sono del tutto sbagliate o poco veritiere. Per esempio voi sapevate che i prodotti biologici non sono più nutrienti di quelli convenzionali a dispetto di ciò che si crede comunemente?

    • oggisalute scrive:

      Salve, la ringrazio per il commento e l’attenzione. E’ proprio vero, ci sono molti miti da sfatare, sui cibi come sugli integratori. Uno fra tutti il mito che il latte allontani l’osteoporosi. Quanto al biologico bisogna innanzitutto vedere cosa sia realmente bio perché il consumatore medio sa ben poco su quali siano i criteri di certificazione e questi non sempre sono abbastanza restrittivi da garantire un’agricoltura o allevamento davvero naturali e privi di sostanze di sintesi inquinanti (ad esempio ho avuto modo di approfondire il tema dei vini biologici, che di biologico hanno ben poco, basandosi sull’etichetta europea che è poco restrittiva proprio perché ha dovuto mettere d’accordo tutti i Paesi dell’Unione).

      Ammesso dunque che i prodotti bio siano bio, entra in gioco l’etichetta: cosa ci dice? Può essere super dettagliata, dirci dove sia stato coltivato quell’ortaggio, magari, con quale acqua sia stato annaffiato, quanti impiegati ha l’azienda eccetera (parlo delle etichette iper trasparenti, che vanno ben oltre la legislazione vigente), ma cosa ci dicono dei nutrienti che quell’ortaggio possiede se non vengono fatte delle analisi di laboratorio a campione del raccolto? E’ proprio ciò di cui parla il professore Lucchin in questa intervista. Sarebbe un po’ come comprare un capo, sapere dove è stato prodotto, chi lo ha importato eccetera ma non sapere se le fibre siano sintetiche, di cotone o di lana! Con la differenza che stiamo parlando di qualcosa che mangiamo, che va a costruire letteralmente il nostro corpo: all’organismo poco importa se quel che mangiamo abbia un buon sapore o un bell’aspetto o se venga dalla Sicilia o dalla Spagna, quel che gli interessa è sapere che possieda quei sali minerali, quelle vitamine, quelle proteine, carboidrati ecc che vanno a costituirne le cellule: usereste mai dei mattoni per costruire la vostra casa senza conoscerne il materiale ma sapendo soltanto dove siano stati prodotti? Quindi sarebbe pure sbagliato dire che i prodotti bio non siano più nutrienti di quelli convenzionali, semplicemente non lo sappiamo, non ci vengono dati gli strumenti per giudicarlo quindi per orientare gli acquisti. Del bio sappiamo solo che hanno meno tossine proprio per il tipo di coltivazione, quindi magari possiamo mangiarli in maniera integrale, senza eliminare le parti con la maggiore concentrazione di vitamine e sali minerali, come la scorza dei frutti o la cuticola dei cereali. Ne consegue così, indirettamente, che i prodotti bio potrebbero pure essere più nutrienti, ma non in sé bensì in quanto li mangiamo integralmente.
      Valerio Droga

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