Approfondimento

Che mondo sarebbe senza olio di palma?
Tutti i danni per l’ambiente e la salute

di valerio droga | 22 ottobre 2013 | pubblicato in Attualità,Prevenzione
orango

Olio di palma, questo sconosciuto. Sempre più spesso è presente sui post di social network, che ne denunciano gli effetti nocivi sull’uomo e sull’ambiente: guardiamo un po’ meglio di che si tratta, cercandone anche eventuali aspetti benefici.

La pianta da cui si estrae l’olio è l’Elaeis guineensis, originaria dell’Africa e oggi coltivata anche in Malesia, Indonesia e nelle zone tropicali dell’America. Dobbiamo sottolineare subito che ne esistono due diversi tipi: l’olio di palma propriamente detto, estratto dalla polpa del frutto, e l’olio di palmisto, ricavato dai semi. Nel primo caso si ricorre alla spremitura e centrifugazione ma dopo vari processi di raffinazione, che comprendono la sterilizzazione che inattiva i carotenoidi di cui il frutto è ricco: non a caso il colorito dell’olio grezzo è arancione.

La caratteristica che va evidenziata è però che, pur essendo un olio vegetale, è particolarmente simile ai grassi animali, in quanto ricco di acidi grassi saturi a lunga catena, tanto che, a temperatura ambiente, l’olio di palma grezzo appare di consistenza solida, simile alla sugna. Per questa ragione l’Organizzazione mondiale della sanità gli attribuisce un effetto ipercolesterolemizzante e aterogeno, che favorisce cioè l’aumento di colesterolo nel sangue e l’aterosclerosi. I rischi per la salute e innanzitutto per il sistema cardiovascolare sono quindi fuori discussione.

Parzialmente diverso è invece l’olio di palmisto, che, pur avendo una percentuale di acidi grassi saturi molto più elevata, ha delle proprietà benefiche, molto simili a quelle dell’olio di cocco. Entrambi, infatti, sono particolarmente ricchi di acido laurico, che è sì pur sempre un acido grasso saturo, ma a catena media e, oltre ad avere un effetto antibatterico, pare faccia innalzare in particolare i livelli di Hdl, il cosiddetto colesterolo buono, che spazza via i depositi di grasso delle arterie.

L’olio di palmisto è ampiamente utilizzato per la produzione di saponi e detersivi, mentre in campo alimentare è spesso impiegato, come l’olio di palma, in margarine, gelati, creme, biscotti, grissini, cracker, pane confezionato, fette biscottate, merendine e altri prodotti dolciari e da forno e perfino cibo per neonati.

C’è poi un problema di mancata trasparenza: moltissimi prodotti che si trovano nelle nostre case contengono olio di palma a nostra insaputa, spesso mascherati sotto la generica dicitura “oli vegetali” o “grassi vegetali” e magari confortata dalle parole “senza grassi idrogenati“: la legge, infatti, non obbliga ancora i produttori a indicarne la presenza in etichetta. Il vero problema non sono infatti i grassi saturi in sé (sotto la soglia del 7 per cento delle calorie totali, raccomandata dall’Oms, non dovrebbe far male), ma il fatto che non sono facilmente individuabili. Dal 14 dicembre 2014, tuttavia, il nuovo regolamento europeo (n. 1169/11) obbligherà ad apporre sulle etichette dei prodotti alimentari il tipo di olio o grasso utilizzato, per rendere il consumatore informato e quindi responsabilizzato.

Premesso ciò è legittimo chiedersi perché tuttavia l’olio di palma venga così ampiamente utilizzato. La risposta è semplice: per i soldi: quest’olio ha un basso costo di produzione, oltre che un buon sapore e un alto punto di fumo, ovvero un’ottima stabilità anche ad alte temperature e per questo spesso usato anche nella frittura industriale.

Qui dobbiamo però soffermarci e sottolineare che sì, i costi sono bassi, è vero, ma solo se non consideriamo anche quelli umani, sanitari, sociali, ambientali e, dunque, economici in senso più ampio. I problemi cardiovascolari sono infatti la prima causa di morte nel mondo occidentale, con costi in termini di vite umane, oltre che per i sistemi sanitari nazionali e le famiglie.

Pur scrivendo in un giornale di salute, vorrei soffermarmi su una voce già citata, quella relativa ai costi ambientali, legati peraltro anche a costi sociali. Le richieste elevate da parte delle nostre industrie induce i latifondisti, spesso aziende multinazionali, a impiantare in Indonesia e Malesia (che controllano circa il 90 per cento della produzione mondiale di oltre 45 milioni di tonnellate) coltivazioni intensive di palma, aggiungendo un incentivo in più all’abbattimento di alberi centenari o anche millenari delle foreste pluviali. Si distruggono così ecosistemi tanto equilibrati quanto fragili, con forte danno per la biodiversità dell’intero pianeta. Le monocolture non solo non sono mai sostenibili, perché impoveriscono il terreno, depredandolo delle proprie risorse, ma spesso richiedono anche un impiego massiccio di acqua e agenti chimici, come pesticidi ed erbicidi.

Ecosistemi che sono anche l’habitat di varie specie animali, come l’orango o l’elefante pigmeo del Borneo, che muoiono spesso per le fiamme appiccate o perché non trovano più risorse in un habitat sempre più ‘stretto’ e sterile. Quanto agli elefanti verrebbero uccisi per i danni che possono arrecare alle piantagioni di palma. Molti ricorderanno le immagini di alcuni mesi fa di quella orango incinta che si aggrappa con disperazione all’ultimo albero rimasto in piedi, prima di venire colpita con un proiettile anestetizzante e portata via dai soccorritori, facendo largo alle ruspe. Altri, ancora, ricorderanno il ritrovamento, nella riserva malesiana di Gunung Rara, di una mandria di elefanti avvelenati, con un solo elefantino che gironzolava attorno al corpo della madre nella ricerca disperata di svegliarla dal lungo sonno.

Dal punto di vista sociale delle comunità locali possiamo solo immaginare i metodi utilizzati nell’acquisto o nell’espropriazione di terreni appartenenti a piccoli coltivatori diretti o all’intera collettività, pensiamo alle tribù dei Dayak e dei Penan, che abitano proprio le foreste pluviali del Borneo ma che non possono vantare diritti di proprietà e il cui habitat viene quindi venduto, magari in pieno rispetto della legge vigente.

Negli ultimi vent’anni la superficie adibita alla coltivazione della palma da olio è infatti più che triplicata. La denuncia arriva da molte associazioni ambientaliste, Greenpeace in prima fila. Altri paesi sono interessati da quest’opera di disboscamento ma in misura minore, come l’Uganda e la Costa d’Avorio, e fenomeni simili si stanno registrando anche in America latina. Dobbiamo anche dire che dal 2008 è stata creata una certificazione di produzione biologica di olio di palma, la Rspo (Roundtable on sustainable palm oil), certificazione che però evidentemente non è sufficiente a garantire biodiversità ed ecosostenibilità, se specie come l’orango del Borneo rischiano oggi l’estinzione. Sarebbe utile, per esempio, andare a vedere chi ha fondato e controlla la Rspo, se cioè si tratti di una certificazione garante di terzietà.

Ci dovremmo chiedere se, pur senza uscire dal libero mercato e anzi per tutelarlo, non fosse il caso di applicare una tassazione speciale su tutti quegli ingredienti che fanno male alla salute per correggere uno dei più diffusi “fallimenti di mercato“, internalizzando le esternalità negative: insomma, chi rompe paga: i costi di produzione dovrebbero essere coperti nella loro totalità dall’azienda produttrice e mai riversati sulla collettività. Se consideriamo, come in questo caso, anche le conseguenze ambientali, sanitarie, umane e sociali, i costi di produzione complessivi diventerebbero talmente elevati da rendere poco conveniente produrre ed esportare quest’olio, almeno in quantità così elevate.

La buona notizia è che, oltre al nuovo regolamento dell’Ue, sui social network stanno imperversando post e link per sensibilizzare sull’argomento, come pure registriamo la presenza di campagne e petizioni online per mettere al bando quest’olio, anche per incentivare un uso maggiore del nostrale olio di oliva, che è sempre altamente consigliato da dietologi e nutrizionisti, seppure in dosi moderate.

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